La preparazione del pane carasau in Barbagia ha origine sicuramente antiche.
A Mamoiada viene chiamato “su pane ‘e vresa” o “pane voledu”, carasau è un termine molto più recente ma che ben rende il significato dell’alimento più famoso in Sardegna e anche oltre mare.
Esso ha uno specifico significato antropologico e culturale e rappresenta anche un rito sociale ben radicato nella comunità. Attorno al forno del pane si riuniscono le massaie che per un intera giornata danno vita, secondo precisi rituali, all’alimento “sacro” e di importanza vitale per una comunità agro-pastorale, cui era appunto il pane.
“Carasau”, deriva dal termine “ ‘aresare” “caresare”, utilizzato a Mamoiada per indicare la fase della divisione in due parti della sfoglia che gonfiandosi come una palla nel forno, viene poi divisa dalle massaie mamoiadine tagliandola con il coltello.
Nell’uso quotidiano il pane però aveva nomi diversi “pane voledu” “biancu” o “pane ‘e sos riccos” ( il pane dei ricchi).
Un tempo infatti il pane carasau era un privilegio delle classi sociali più abbienti. Non tutte le famiglie potevano permettersi il grano o la farina necessaria per preparare il pane, e infatti veniva alternato con pani come il pane d’orzo “s’orjathu”, considerato un tempo “il pane dei poveri” e che oggi nessuno prepara più, nonostante abbia delle caratteristiche nutrizionali interessanti.
Il pane carasau, era un tempo anche l’alimento principale dei pastori, costretti durante la transumanza a restare molto giorni fuori casa, esso infatti trattenendo poca umidità può essere conservato per lungo tempo senza che si deteriori.
Ovviamente con il tempo, meno male, anche se non tutti possedevano un forno, la maggior parte delle famiglie poteva comunque prepararsi il pane tramandandolo di generazione in generazione fino ai nostri tempi.
IL RITO DEL PANE
La preparazione del pane carasau
…in lumen de su Babbu, de su Fizu e de s’Ispiritu Santu. Amen[1].
[1] Trad: Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, Amen.
Col segno della croce, iniziava e inizia il rito del pane, un rito lunghissimo articolato in diverse fasi una complementare all’altra, segnate sin dall’inizio appunto dal segno della croce, un segno di sacralità e di buon auspicio impresso persino sul lievito naturale “sa mardi’e” (la madre) il giorno precedente alla lavorazione.
La lavorazione e l’intero processo di preparazione viene affidato esclusivamente alle donne e richiede almeno una giornata intera di lavoro.
La sera prima viene preparata “ sa mardi’e” (la madre), ottenuta con la lievitazione naturale di un pezzo di pasta, “s’irmentazu” [2].
[2] Il Lievito ottenuto dalla naturale fermentazione di un pezzo di pasta.
All’interno di un grande cesto , “ sa ‘orve”, veniva versata una parte di quella farina necessaria per fare il pane l’indomani, “s’irmentazu” veniva fatto sciogliere con acqua tiepida e veniva poi amalgamato con questo impasto morbido segnato sulla parte superiore con il simbolo di una croce. A questo punto “sa ‘orve” veniva coperta con dei teli di lana “sos tappinos”, e lasciata al caldo tutta la notte.
Questo impasto, che avrà bisogno di tutta la notte per lievitare, sarà pronto per essere lavorato, “inturtau”, in un altro recipiente, questa volta in legno, la madia o “la’u”, dalla capienza anche di 50 kg di farina. L’impasto viene bene amalgamato e poi lavorato dalle donne molto energicamente in modo da dare una buona consistenza e elasticità, questa lavorazione, chiamata “su ‘arionzu”, richiedeva molta forza e talvolta erano gli stessi uomini ad aiutare le massaie durante questa operazione.
A questo punto la pasta lavorata viene suddivisa in piccole sfere, “sas botzas”, che venivano poi riposte nelle ceste di asfodelo e coperte con i teli, affinché continuassero a lievitare.
Queste piccole sfere vengono poi schiacciate e lavorate con il mattarello, “ su ‘anneddu”, nella fase che in mamoiadino viene chiamata “su tendinzu”, le sfere vengono trasformate dalle abili mani de “sas tendidoras”, in perfette sfoglie rotonde.
Per questa operazione, che richiedeva molta abilità e perfezione, erano necessarie almeno tre donne; una o due iniziavano a lavorare le sfoglie, “irgrussavana” ( tradotto letteralmente sgrossavano), l’ultima donna, la più esperta, “sa tendidore”, rendeva la sfoglia perfettamente rotonda e del giusto spessore.
Le sfoglie rotonde, “Su pane tesu”, vengono poi a una ad una riposte a strati all’interno dei teli “sos tappinos”.
A questo punto, bisognava controllare se il pane fosse pronto per la cottura:
“Su o’inzu”
Ma prima anche il forno doveva essere al punto giusto e cioè “arridu”[3],
[3]Trad.: “Arido” , questo perché le sfoglie dovevano gonfiarsi al punto giusto e velocemente: “deppene volare”.
Viene introdotta una sfoglia nel forno e fatta cuocere, la sfoglia si gonfia formando una grande palla che poi viene divisa in due parti nella fase de “su ‘aresonzu”.
Carasare o “ ‘aresare” è la divisione in due parti della sfoglia cotta nel forno, da qui infatti deriva il termine usato per indicare appunto questo pane.
Se le due sfoglie o “sas fresas” non risultavano uguali e ben cotte, ossia “su pane est issiu a ispriccos”[4], [4]Trad.: Il pane è uscito a specchi, ossia presenta delle macchie e quindi non è uniforme.
Si procedeva ad un’altra fase detta “incresionzu”.
Le sfoglie vengono introdotte nel forno per essere appena riscaldate e riposte nei teli. Questo termine è assai curioso, ma con un significato ben preciso e legato alla religiosità. “ S’incresionzu”[5] era un termine usato un tempo anche per indicare la prima entrata in chiesa della madre con il nascituro e non a caso spesso è la prima entrata del pane nel forno.
[5]Trad: Entrata in Chiesa, termine formato da due suffissi: in e cresionzu, da Chiesa appunto.
Anche la fase de “su ‘aresonzu” è molto importante perché bisognava dividere bene le sfoglie senza lasciare pezzettini di pane lungo i bordi, “sas lavreddas”[6], questo perché dopo la tostatura venga resa più agevole…e anche l’occhio vuole la sua parte!
[6]Trad: piccoli pezzetti di pane nei bordi.
Alcune di queste sfoglie “pane lentu”, ancora morbide, venivano conservate per essere consumate il giorno stesso, per essere donate alle massaie che aiutavano a fare il pane oppure, e questo accadeva spesso, venivano portate con se dai pastori in campagna.
Terminato “su ‘aresonzu”, “sar fresas” o “tundas”, il pane viene “ispizau”, cioè diviso e riposto in pile all’interno dei cestini, e soprattutto ben pressato magari ponendo un cesto sopra le sfoglie, “su pane venivi alau”, abbassato, questo era necessario per favorire la tostatura. A questo punto sempre avvolte nei teli, le sfoglie impilate vengono lasciate riposare per un’oretta.
L’ultima fase “su tostonzu” , letteralmente la tostatura, servirà a dare al pane la croccantezza e la doratura desiderata. Il pane diventa “arridu”, e le sfoglie riposte nei cestini sono pronte per la consumazione.
Il pane tostato e privo di umidità e d’acqua si può conservare a lungo nei cesti, anche per diversi mesi.
Attualmente, a parte l’introduzione dei macchinari, il pane carasau continua ad essere lavorato come un tempo. Forse anche meglio. Lo stesso lievito di birra utilizzato al posto de “s’irmentazu” , da una durata maggiore al pane, Accadeva spesso infatti che il pane se conservato troppo a lungo “si tumbiada”, si guastava, ma questo forse era anche dovuto al fatto che sia il luogo e sia le modalità di conservazione non erano di certo le ideali per la conservazione. Oggi c’è un ritorno all’utilizzo di questo fermento per il notevole aumento delle persone allergiche al lievito chimico. L’introduzione della sfogliatrice ha ridotto notevolmente i tempi de “su tendinzu”; un tempo ci si impiegava parecchio per lavorare le sfoglie e talvolta questo rischiava di rovinare il pane che era già stato riposto nei teli. “Su pane si che passavada”[7].
[7]Trad: il pane passava, si guastava.
Così come l’impastatrice ha agevolato la lavorazione della pasta che richiedeva uno sforzo enorme da parte delle donne.
La leggenda “metropolitana” che i forni del pane fossero fonte di pettegolezzi…non è poi così tanto leggenda!
Il rito del pane è anzitutto un momento di incontro e di socializzazione, si parla del più e del meno, forse più del più che del meno e quindi è “normale” che ci si faccia un pò gli affari degli altri!
E’ anche vero che a volte si esagera…ma “è la tradizione”!
Ma se una persona voleva essere aggiornata degli eventi del paese……………….bè, “Sa cughina de o’ere” allora era il luogo ideale, e poi….”sa die che vole ‘olà” (la giornata deve passare), e il chiaccherio serviva anche per alleviare il duro lavoro. A parte questo, la cucina del pane è comunque fonte di tantissimi ricordi per tutti noi, per i bambini specialmente, il giorno in cui si faceva il pane era un giorno di festa. Tutta la famiglia e la parentela si riuniva attorno al piccolo “tempio” e il suo profumo oltrepassava, e oltrepassa ancora oggi in modo piacevole, i muri delle case.
E come si dice sempre come buon augurio “Deus bor vardede”.
L’articolo è tratto da un saggio da me scritto qualche anno fa intitolato “Dae su trigu a sa vresa”. Le immagini sono state scattate in occasione della manifestazione Arte nelle Mani – Badu Orgolesu 2008.